“Marcello, come here! Hurry up!”
“Sì Sylvia, vengo anch’io! Vengo anch’io!”
Chi ha riconosciuto queste due frasi, sa di cosa sto parlando: il famoso bagno di Anita Ekberg dentro la maestosa Fontana di Trevi.
Oltre ad essere la fontana più grande di Roma, il film “La dolce vita” di Fellini ha contribuito molto alla sua fama, facendola conoscere a livello mondiale. Qualsiasi turista che mette piede a Roma, chiede sempre due indicazioni stradali:
la prima come arrivare al Colosseo, la seconda come arrivare alla Fontana di Trevi.
L’origine di questa fontana è collegata al restauro dell’Acquedotto dell’Acqua Vergine, fatto nel 19° secolo A.C. e voluto dall’imperatore Augusto, che affidò a Marco Vispanio Agrippa l’incarico di costruire un sistema idrico per far arrivare l’acqua del fiume Aniene fino a Campo Marzio, in modo da poter alimentare le terme.
Il percorso di questo acquedotto è piuttosto lungo; inizia da alcune sorgenti naturali vicino al fiume Aniene, nella campagna Agro Lucullano – praticamente l’attuale km 10,500 della Via Collatina –, per poi snodarsi fino a Roma, attraversando il sottosuolo del quartiere Parioli, poi di Villa Borghese, e infine Campo Marzio. Il nome di “Trevi” invece ha origine nel 1400, perché la vasca di riempimento dell’acqua Vergine era situata all’incrocio delle tre vie che formavano la Piazza dei Crociferi. Allora la fontana era conosciuta come la Fontana del “Trivio”, poi, col passare dei secoli, la parola si trasformerà in “Trevi”.
Ovviamente non fu subito costruita in forma così sontuosa e scenografica.
Per quello dobbiamo arrivare al 600 con Papa Urbano VIII che desiderava sostituire la vecchia fontana a forma di una semplice vasca, con qualcosa di più grande e sontuoso.
E a chi fu dato il compito dell’opera? Ma ovviamente a lui: al Bernini.
Questi presentò al Papa diversi disegni e progetti, tutti con proporzioni immense, alla fine fu fatta la scelta del progetto, purtroppo quello più costoso. Per trovare i soldi necessari a coprire tutte le spese, Urbano VIII decise di aumentare le tasse sul vino.
Il giorno dopo, Pasquino declamò un suo versetto su questo episodio, interpretando il malumore dei romani, che diceva:
“Per ricrear con l’acqua ogni romano, di tasse aggravò il papa Urbano”.
Non solo: per far posto alla sua fontana, papa Urbano VIII dette ordine al Bernini di smantellare un altro monumento antico che era la Tomba di Cecilia Metella.
Fortunatamente il popolo romano si inalberò per le decisioni prese e per le tasse, il papa allora fece un passo indietro, ma troppo tardi, ormai la maggior parte della tomba antica era già stata demolita.
A causa di questo episodio, e poi per tutto il resto, c’è un detto romanesco:
“Quel che non fecero i barbari a Roma, lo fecero i Barberini”
I lavori durarono moltissimi anni, sia Papa Urbano, che Bernini, non ne videro la fine.
Bisogna arrivare al papato di Clemente XII che inaugurò la grande Fontana di Trevi, nel 22 maggio del 1762.
Se siete a Roma, il percorso più semplice da fare per visitarla, è percorrere a piedi tutta Via delle Muratte, (che è una strada laterale che inizia da Via del Corso) fino ad arrivare a Piazza di Trevi.
Quando arriverete davanti alla balaustra, ricordatevi di lanciare le monetina, come vuole la vera tradizione romana.
Prima cosa: le monetine da gettare nella fontana sono tre, e non una.
Poi dovete dare le spalle alla statua che raffigura Oceano, e lanciarle una alla volta con la mano destra, verso la spalla sinistra.
Una moneta è per trovare l’amore, la seconda per sposare l’amore della propria vita, la terza è per ritornare a Roma e godere dell’amore.
Una volta che avete ammirato la fontana di Trevi, approfittate per fare visita ad un luogo storico, che si trova un po’ in disparte, tra Via del Lavatore e Via di San Vincenzo, dove c’è una chiesa che nasconde un “storia” particolare: è la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio.
Non è molto grande, ma caratteristica per la facciata sormontata da un doppio livello di colonne; i romani del cinquecento la battezzarono subito con il nome la “chiesa del canneto”.
E’ un piccolo gioiello del barocco che consiglio di visitare e per … ammirare (quando è possibile) le urne che contengono gli organi interni di vari papi.
Ebbene sì, questa chiesa, dal cinquecento fino all’ottocento circa, fu designata per ospitare i precordi - le “interiora” per dirlo alla “romana” - dei papi, che venivano tolte per l’imbalsamazione, e depositate all’interno di preziosissime urne.
L’usanza dell’imbalsamazione dei corpi dei papi ebbe inizio con Papa Sisto V (1585 – 1590), per terminare con Papa Leone XIII (1878-1903).
I papi che seguirono nei primi del novecento decisero di non continuare questa tradizione, tranne uno, che invece si pose il problema angoscioso del proprio corpo dopo la morte, e fu Papa Pacelli detto Pio XII, il quale disse che desiderava essere imbalsamato, affidandosi agli studi scientifici, e alle mani, del dottor Galeazzo Lisi, soprannominato dai romani come lo “stregone”.
Una leggenda urbana racconta che fu proprio il dottor Lisi a convincere Papa Pacelli di farsi imbalsamare dopo la morte, ma senza togliere gli organi interni, grazie alla sua tecnica multistrato del cellophane ed iniettando nel corpo una sostanza misteriosa, che lui stesso aveva scoperto e creato.
Egli prometteva che questa sostanza era in grado di cristallizzare tutti i vasi sanguigni, al punto tale da impedire il processo di putrefazione.
Il Lisi fu senza dubbio la persona più abbietta che frequentava il Vaticano.
Quando Papa Pacelli si ammalò ed entrò in agonia, Lisi non perse tempo. Di nascosto dagli altri medici e suore badanti, iniziò a scattare una serie di fotografie al povero Papa intubato e ormai inerme nel suo letto, per rivenderle a diversi giornali stranieri e guadagnando un bel gruzzoletto per quei tempi.
Poi, dopo il decesso del papa, riuscì a convincere il Cardinale Tesserant, decano del Sacro Collegio, dicendo che aveva avuto l’autorizzazione da Papa Pacelli di procedere all’imbalsamazione del corpo con il processo scientifico da lui inventato.
Il Cardinale Tesserant dette il consenso a procedere, e il risultato fu veramente mostruoso!
La salma del Papa fu avvolta i vari strati di cellophane, e poi esposta nella camera ardente di Castel Gandolfo per i primi giorni. Dopo, seguì il trasporto per portare il corpo dalla residenza estiva, al Vaticano.
Ebbene durante il tragitto, il corpo del papa esplose dentro la bara a causa dei gas che si erano sprigionati, e quando arrivò in Vaticano, le membra erano quasi dissolte e il viso completamente sfigurato.
Fu necessario un intervento di “chirurgia estetica” a base di cera, ovatte e formalina prima di esporlo per l’ultimo saluto dei fedeli.
Il dottor Lisi fu sottoposto ad una specie di “tribunale” (allora si chiamavano “procedimenti”) per la sua spregiudicatezza e soprattutto per la sua completa incapacità professionale.
La storia popolare narra che il Lisi comunque non si perse d’animo, ma anzi!
Continuò negli anni seguenti ad avvalorare la sua tesi scientifica di imbalsamazione, pubblicando le sue idee e i valori della sua tecnica e – purtroppo – continuando anche a pubblicare le foto dell’agonia di Papa Pio XII.
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